.: scrivamìa - installazione 8arte 2004
otto.arte.duemilaquattro la poetica della solitudine
forse va così. ti accorgi che la vita è una foto di gruppo: molti posano, troppi restano a contatto con una realtà che non è di casa. si affrettano a prender decisioni nell'attesa di qualcosa, con il rischio che non accada di qualcuno, con il rischio che non ti veda, del motivo che ci accomuna dentro la cornice. ancora troppo poco stanco per dormire.
un albero fiorì qualche primavera fa; rimase in fondo all'anima un frammento rosa. ed è logico che noi ci rifugiamo lì: al primo freddo anche un niente di caldo diventa qualcosa.
spleen. solitudine malinconica.
scrivamia (ferentino, 2001-2004)
a sei anni era convinta che si chiamasse scrivamia. ci disegno sopra io, ci gioco io, è la mia: si chiama scrivamia.
vorrei vedere se tua madre ti permette di scrivere sui mobili di casa come fai sul banco di scuola, mi ripetevano i professori di liceo. beh, sulla scrivamia da nonna si.
la scrivamia era di nonno. io mi ci siedo a riflettere, o quando voglio scrivere, o semplicemente per stare da solo: avrà letto tutte le mie lettere. lì su il pensiero scappa dalle briglie, e la penna esce fuori dal foglio. altro che sessanta centimetri di scuola, un metro e ottanta per un metro di massiccia confusione grafica.
ci ho messo su un foglio di plastica trasparente, e vistolo riempito non potevo buttarlo. ci sono tre strati, anno per anno. qualcosa è andato perduto, qualche scarabocchio è diventato un disegno, qualche disegno è diventato utile. alla fine tutto quel tempo passato in solitudine, a sognare, a ripensare ai casi della vita, non poteva esser sprecato.
anzi, solo a cercar di ricostruire tutto quel che c'è scritto, ripercorrendo la genesi e gli sviluppi di quelle idee, mi si riempie il cuore. di un sentimento esattamente opposto a quello che generava quei pensieri.
Vanamente avevo sperato di trovare nel mio paese di che calmare l'inquietudine, l'ardore di desiderio, che mi seguono ovunque. Lo studio del mondo non mi aveva insegnato nulla, tuttavia non avevo più la dolcezza dell'ignoranza.
Mi trovai ben presto più isolato nella mia patria di quanto non lo fossi stato in terra straniera. Volli gettarmi per qualche tempo in un mondo che non mi diceva nulla e che non m'intendeva. La mia anima, che nessuna passione aveva ancora logorato, cercava un oggetto che potesse legarla a sé. Ma mi avvidi che davo più di quanto non ricevessi: non si richiedeva da me né un linguaggio elevato, né un sentimento profondo. Non ero che occupato a rimpicciolire la mia vita, per metterla al livello della società.
Trattato ovunque come uno spirito romantico, vergognoso della parte che sostenevo, disgustato sempre più dalle cose e dagli uomini, trovai da principio abbastanza piacere in una vita oscura e indipendente. Sconosciuto, mi mescolavo alla folla: vasto deserto d'uomini! Quando giungeva la sera, riprendendo la via del mio rifugio, mi fermavo sui ponti per veder tramontare il sole. L'astro, infiammando i vapori che si levavano dalla città, sembrava oscillare lentamente in un fluido d'oro, come il pendolo dell'orologio dei secoli. Mi ritiravo di notte, attraverso un labirinto di vie solitarie. Guardando i lumi che brillavano nelle dimore degli uomini, mi trasportavo col pensiero alle scene di dolore e di gioia che essi rischiaravano. E pensavo che sotto tanti tetti abitati, io non avevo una donna.
Quella vita, che m'aveva all'inizio affascinato, non tardò a divenirmi tediosa. Mi misi a sondare il mio cuore, a domandarmi cosa desiderassi. Non lo sapevo.
Ma eccomi all'improvviso risoluto a terminare in una sorta d'esilio una carriera appena cominciata, e nella quale avevo già divorato dei secoli. Abbracciai il progetto con l'ardore che metto in tutti i miei disegni.
Mi si accusa di avere gusti incostanti, di non poter godere a lungo della stessa chimera, d'essere preda di un'immaginazione che si affretta ad arrivare al fondo dei piaceri, come se fosse oppressa dalla loro durata. Mi si accusa di oltrepassare sempre la meta che sono in grado di raggiungere.
Cerco soltanto un bene sconosciuto, il cui istinto mi perseguita! È colpa mia se trovo ovunque dei limiti, se ciò che è finito non ha per me alcun valore?
La solitudine malinconica, lo spettacolo della natura, mi fecero piombare in uno stato pressoché impossibile a descriversi. Per così dire, solo sulla terra, non avendo ancora affatto amato, ero come sommerso da una sovrabbondanza di vita. Talvolta arrossivo all'improvviso, e sentivo scorrere nel mio cuore come dei ruscelli di lava ardente. Talvolta gettavo delle grida involontarie, e la notte era egualmente turbata dai miei sogni e dalle mie veglie.
Mi mancava qualche cosa per riempire l'abisso della mia esistenza.
Ascoltavo motivi malinconici, che mi ricordavano che in ogni paese il canto naturale dell'uomo è triste, anche quando esprime la felicità. Il nostro cuore è uno strumento incompleto, una lira a cui mancano delle corde, e con la quale siamo costretti a rendere gli accenti della gioia sul tono consacrato ai sospiri.
Così pensando, camminavo a grandi passi, il viso in fiamme, mentre il vento sibilava tra i miei capelli, senza sentire né pioggia né gelo. Ammaliato, tormentato, e come posseduto dal demonio del mio cuore.
La notte, quando le piogge cadevano sul mio tetto, quando attraverso la finestra vedevo la luna solcare il cumulo delle nubi, mi sembrava che la vita si reduplicasse al fondo del mio cuore, e che avrei avuto la forza di creare dei mondi. Se avessi potuto far partecipare qualcun altro agli slanci che provavo! Oh Dio! Se tu mi avessi dato una donna secondo i miei desideri! Se, come al nostro primo progenitore, tu mi avessi condotto per mano un'Eva tratta da me stesso… Bellezza celeste, io mi sarei prosternato dinanzi a te; poi, prendendoti tra le braccia, avrei pregato l'eterno di donarti il resto della mia vita. Ero solo. Solo sulla terra!
Un segreto languore si impadroniva del mio corpo. Ben presto il mio cuore non fornì più alimento al mio pensiero, e non mi accorgevo della mia esistenza che per un profondo senso di noia.
Lottai qualche tempo contro il mio male, ma con indifferenza e senza avere la ferma risoluzione di vincerlo. Infine, non potendo trovare rimedio a quella strana ferita del mio cuore, che non era da nessuna parte ed era ovunque, mi risolvetti a lasciare la vita.
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