metto a fuoco la mia camera, i libri accatastati contro il muro, le pile dei dischi, la chitarra, le bombole e la tela con i pennelli, la scrivania ingombrata per gli esami, i vestiti appoggiati su una sedia. mi sveglio con la luce del sole, come sempre.
il solito dimenarsi del dormiveglia, i pensieri insensati dei sogni che ancora affollano la mente, e che si scontrano con la consapevolezza di essere per metà addormentati. mi scoprò così ogni mattina, e immagino di essere pazzo, ad ascoltarmi.
la musica è una delle poche cose a cui vale la pena dedicare del tempo in questo mondo, come le altre espressioni dei sentimenti dell'uomo, che sono poi l'unica cosa che ci dovrebbe distinguere almeno dagli essere inanimati.
ma a me piace pensare che anche gli oggetti abbiano un cuore.
dico almeno perchè se l'uomo di oggi non è una bestia, spesso sembra non averlo un cuore: chi di noi non si è mai sentito circondato da tanti allegri ragazzi morti?
questi miei primi pensieri, selezionati da quel gran flusso che la notte galoppa libero, scorrono mentre inserisco il disco, ruotandolo tra le dita, ed accarezzo il tasto play del lettore cd.
mi vedo vivere. sono in cucina, a dimenare un piede a ritmo, riflesso sul vetro di uno di quei fornelli di metallo a specchio, con il forno incassato in basso.
ecco, ora vedo i miei due piedi, scarni come sono: uno batte per terra il ritmo, l'altro è fermo.
avanzo un pochino, ed all'immagine riflessa si aggiunge quella della sedia su cui sono seduto.
la mano è salda sulla ruota di sinistra, per farla avanzare, mentre le ruote anteriori sterzano leggermente a destra. la carrozzina è mia naturale appendice.
lo spettacolo della natura... godo una splendida vista da casa mia, e se c'è una cosa che davvero amo, sono le nuvolette. prendetemi per scemo, tanto lo so da me, già dal dormiveglia. le amo quando corrono, quando a mezzogiorno hanno contorni così perfettamente definiti, e quando sono tempestose, come stamattina.
mi arrangio a scendere le scale buie, all'università ci devo pur andare. abito in un palazzo seicentesco, all'ultimo piano, ed il silenzio è rotto dall'echeggiare dei rumori dei miei armeggi. apro il gran portone di legno, da cui filtra la luce ed il trambusto di ogni giorno, quello della gente di lì fuori.
la strada è leggermente in discesa, però tutti salgono, passando di fronte a me da destra a sinistra. sembra stia per piovere, si va di fretta. tanto si va di fretta anche quando non piove. niente macchine, tutti a piedi. vasto deserto d'uomini!
le amichette vanno a scuola, affogate tra zainetti e griffe, il cellulare stretto nel pugno, con la loro cultura popolare, il gossip e la televisione dei reality-show che più finti non si può.
un pischello procede lentamente, sguardo fisso, col telefonino ci dialoga. credo lo preferisca alle ragazze, se ha mai avuto il coraggio di dire ad una lei qualcosa a voce.
e poi il manager, serio e compunto, che si è dimenticato di quant'è bella la vita per il successo, s'è ammalato per il lavoro. non che il lavoro sia negativo in se, anzi, quel divertissement che ci fornisce riempie il nostro tempo con qualcosa di costruttivo. però senza dimenticare che l'uomo è un essere socievole, non una macchina. viviamo per gli altri, mica per il nostro portafogli.
avvicino la faccia all'uscio quando il distinto quarantenne esce fuori dal mio campo visivo, proprio mentre si sta portando all'orecchio l'inseparabile telefonino. vedo un fulmine cadere trasversalmente proprio dinanzi a me, tagliando lo spettacolo del mio portone-schermos sul mondo, da in alto a destra a in basso a sinistra, quasi orizzontale, nella direzione del manager.
il bagliore mi spinge di nuovo per le scale, un fascio luminoso incornicia il portone lato dopo lato, mentre cerco di schermire la vista con le mani.
un attimo di silenzio.
e come un piatto a cui è stata staccata la corrente fa ripartire il disco con uno slope-in, così ascolto i suoni ripartire lentamente, e via via accelerare, ma li odo ora al contrario.
riesco a riaprire gli occhi dopo l'abbaglio quando vedo anche la scena di prima girare al contrario, inseguendo i suoni.
lentamente tutti i passanti tornano indietro, in una moviola, e poi sempre più veloci.
un'indistinto flusso di spazio e tempo, di strisce colorate, di pensieri e parole dette velocissime, come se il pendolo dell'orologio dei secoli avesse preso a battere velocissimo, ma al contrario.
un'altro lampo investe il portone, sempre un lato dopo l'altro, stavolta in senso orario, come un fascio di luce che si muova circolarmente.
ora è tutto immobile.
esco dal portone, della gente di lì fuori non c'è anima viva. il trambusto di ogni giorno tace, ma sembra tutto più pulito, ordinato, tenero. i colori sono più vividi, l'aria è limpida, ed una leggera brezza comincia a spirare, scuotendo le foglie degli alberi.
esco. mi vedo da lontano, dalla cima di un palazzo, camminare per le strade deserte. a piedi.
trovo un clochard, buttato in un angolo di una stazione deserta, su quei pavimenti chiari di macchie gialle agli scalini, con un pò di sporcizia, seduto sui cartoni, circondato da giornali. barba ispida, capelli scompigliati, canuti, un gran buffo nasone rosso. ma le mani delicate, che stringono un tizzone, con cui sta scrivendo.
alza lo sguardo verso di me che arrivo dal fondo della stazione. tuona: "vivrei in pace se l'uomo ricordasse di esser un monumento alla virtù.".
"...". lo osservo, è cieco.
"la conoscenza", sbuffa rassegnato, quasi ad intendere "guarda come mi hanno ridotto".
"sopraffatto dalla noja, dal futile, dalla disinformazione. a chi interessa più la verità? l'uomo nasconde agli altri per tradirli, li vende al denaro. l'uomo non affronta più, ha paura. l'uomo è schiavo del tempo in cui vivi. troppe storie deformate, troppe cose non dette. l'uomo sguazza nell'indifferenza..."
la voce si dirada mentre scappo, perchè il personaggio mi incuteva un certo terrore, in quel mondo solitario in cui camminavo.
scorgo una donna dalla veste semplice, bianca di cotone, con un bimbo ai piedi che gioca con del legno e dei colori, che tesse seduta al sole, su uno sgabello. faccio per avvicinarmi.
"finora solo gli esseri inanimati hanno capito che ognuno svolge il proprio preciso compito nel meccanismo dell'esistenza." mi dice lei, senza alzare lo sguardo, continuando a ricamare.
l'immagine di lei, sicuramente più rassicurante, mi spinge a risponderle. le sorrido giocando con il bimbo "tutti gli uomini in fin dei conti sono saggi, ma distratti dallo scorrere del tempo..."
"non hanno ancora capito bene cos'è l'amore." aggiunge lei, guardando teneramente il suo bimbo.
continua "la vita è una madre seduta al telaio. ma l'uomo, che la vede dal basso, non ne riconosce il disegno. nota solo i nodi ed i fili che penzolano.".
col pensiero che quei fili fossero vite spezzate, e quei nodi vite che si uniscono, mi viene incontro un pastore. ho la sensazione che questi uomini, così semplici nelle fattezze, nei modi, nell'abbigliamento, si fondano con la terra in un senso panico da tempo dimenticato.
mi guarda, lo guardo. non parliamo. è la sensazione di una preghiera in cui non si recitano formule di ringraziamento nè richieste, dall'orizzonte infinito. il suo sguardo è intenso, ma riesco a sostenerlo tranquillamente, mentre magari nella vita di tutti i giorni resterebbe difficile.
mi posa una mano sugli occhi, ed è di nuovo luce, fino a ritrovarmi al portone. esco di casa, mani in tasca, e passeggio tranquillo, nelle strade pulite, tra suoni tipo brainwave-syncronizer. mi trovo un foglietto in tasca, scritto ruvido su uno straccio di tela.
gli uffici pieni di gente, una camera affittata al mese, il proprietario del negozio dell'angolo che conosco come ci si conosce fra uomini, i ragazzi sulla panchina il pomeriggio, l'inutilità laboriosa delle giornate. penso a quanto di vile, stracco, abbandonato e fittizio ci sia in questa società, in cui tuttavia siamo costretti vivere, e a cui non possiamo in alcun modo sottrarci.
la prigione della mente è scovare nei cassetti la vergogna di fuggire verso se stessi, e la condanna è avere per vita quella spazzatura dell'animo, quella tranquillità con cui molti persistono inermi nel circolo vizioso. sembriamo tanti vegetali progrediti.
nulla cambierà veramente?
del resto rivedo le ragazze chiacchierare, il manager mano per mano con i figli, il ragazzo che ride con amici ed amiche. tutti hanno lo stesso sentimento, e sento le parole incastonarsi nitidamente tra loro, in un ritmo incalzante.
quando amiamo desideriamo sempre essere migliori di quel che siamo. e quando cerchiamo di essere migliori di quel che siamo, anche tutto quel che ci circonda diventa migliore.
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il presente testo è un collegamento tra tre o quattro sogni che ho fatto davvero, con ovvii tagli sui particolari e sulla descrizione delle ambientazioni. poichè il sogno è un pensiero, il racconto evolve come monologo interiore. ho provato comunque a trasportare in discorso diretto le emozioni provate, perchè nel songo parole non ce n'erano. nello stesso modo si potrebbe adattare la conclusione.
secondo testo
la luce del sole, metto a fuoco. la mia camera, libri accatastati contro il muro, dischi impilati, chitarra; le bombole, i disegni e la tela con i pennelli; la scrivania ingombrata per gli esami, vestiti appoggiati su una sedia.
il solito dimenarsi del dormiveglia, pensieri di sogno che affollano la mente, e che si scontrano con la consapevolezza di essere per metà addormentati. immagino di essere pazzo, ad ascoltarmi. i sentimenti sono l'unica cosa che ci dovrebbe distinguere almeno dagli essere inanimati. ma a me piace pensare che tutto abbia un cuore. dico almeno perchè se l'uomo di oggi non è una bestia, spesso sembra non averlo un cuore. a volte mi sento circondato da tanti allegri ragazzi morti.
inserisco un disco, ruotandolo tra le dita, accarezzo il tasto play del lettore cd. mi vedo vivere. sono in cucina, a dimenare un piede a ritmo, riflesso sul vetro di uno di quei fornelli di metallo a specchio, con il forno incassato in basso. ecco, ora vedo entrambi piedi, scarni come sono: uno batte per terra il ritmo, l'altro è fermo. avanzo un pochino, ed all'immagine riflessa si aggiunge quella della sedia su cui sono seduto. la mano è salda sulla ruota di sinistra, che avanza, le ruote anteriori sterzano leggermente a destra. è mia naturale appendice, un paio d'ali di riserva.
le nuvolette... prendetemi per scemo, tanto lo so da me, già dal dormiveglia. le guardo dalla finestra e le amo, quando sono tempestose e corrono. come stamattina. mi arrangio a scendere le scale buie, all'università ci devo pur andare. abito in un palazzo seicentesco, all'ultimo piano, il silenzio rotto dal mio armeggiare. apro il gran portone di legno, da cui filtra la luce ed il trambusto di ogni giorno. quello della gente di lì fuori.
la strada è leggermente in discesa, però tutti salgono, passando di fronte a me da destra a sinistra. sembra stia per piovere, si va di fretta. tanto si va di fretta anche quando non piove.
le amichette vanno a scuola, affogate tra zainetti e griffe, il cellulare stretto nel pugno, gossip e televisione. più avanti un ragazzetto procede lentamente, sguardo fisso, col telefonino ci dialoga. avrà mai avuto il coraggio di dirle qualcosa a voce?
scruto il manager, serio e compunto, che si è dimenticato di quant'è bella la vita per il successo, s'è ammalato per il lavoro. avvicino la faccia all'uscio proprio mentre esce fuori dal mio campo visivo, si sta portando all'orecchio l'inseparabile telefonino. un fulmine cade trasversalmente proprio dinanzi a me, tagliando lo spettacolo del mio schermo sul mondo da in alto a destra a in basso a sinistra, nella direzione del manager.
il bagliore mi spinge di nuovo per le scale, un fascio luminoso incornicia il portone lato dopo lato, mentre cerco di schermire la vista con le mani. un attimo di silenzio. ascolto i suoni ripartire lentamente, e via via accelerare, ma li odo ora al contrario. riesco a riaprire gli occhi dopo l'abbaglio, e anche la scena insegue i suoni. tutti i passanti tornano indietro, in una moviola, e poi sempre più veloci. un'indistinto flusso di spazio e tempo, di strisce colorate, di pensieri e parole dette velocissime.
un'altro lampo investe il portone, e me che sono sulla soglia. ora è tutto immobile. esco, e della gente di lì fuori non c'è anima viva. il trambusto di ogni giorno tace. i colori sono più vividi, l'aria è limpida, ed una leggera brezza comincia a spirare, scuotendo le foglie degli alberi. esco. mi vedo vivere, da lontano, dalla cima di un palazzo, e camminare per le strade deserte. a piedi. tutto è perfetto. questa Natura è perfetta. io sono perfetto.
un clochard è buttato in un angolo di una stazione deserta, su quei pavimenti chiari di macchie gialle agli scalini, seduto sui cartoni. barba ispida, capelli scompigliati, canuti, un gran buffo nasone rosso. ma le mani delicate. scrive sfumature sfiorando la stoffa con i polpastrelli, ma non ha inchiostro. alza lo sguardo verso di me che arrivo dal fondo della stazione, ci siamo solo noi due. sono vicino quanto basta per osservare che è cieco. "la conoscenza...", sbuffa rassegnato, "sopraffatto dalla noja. a chi interessa più la Verità?". gli passo di lato, non davanti, ancora disorientato: "quest'uomo si vende al Denaro, ha paura. l'uomo è schiavo del tempo in cui vivi, sguazza nell'indifferenza..."
la voce si dirada mentre più in là scorgo una donna dalla veste semplice, bianca di cotone, con un bimbo ai piedi che gioca con del legno e dei colori. lei tesse seduta al sole, su uno sgabello. ancor prima di avvicinarla, con voce fioca, delicata: "finora solo gli esseri inanimati hanno capito che ognuno svolge il proprio compito nel meccanismo dell'esistenza." senza alzare lo sguardo, continuando a ricamare.
le sorrido, mi abbasso verso il bimbo. "non hanno ancora capito bene cos'è l'amore." aggiunge lei, guardandolo teneramente. pausa. "la vita è una madre, seduta al telaio. ma l'uomo, che la vede dal basso, non ne riconosce il disegno. nota solo i nodi ed i fili spezzati.". noto un pastore che si avvicina. quei nodi sono vite che si uniscono, mi ripetevo. mi guarda, lo guardo. non parliamo. riesco a sostenerlo, diversamente dal solito. è la sensazione di una preghiera dall'orizzonte infinito, in cui non si recitano formule di ringraziamento nè richieste.
sempre troppo poco stanco per dormire.
mi posa una mano sugli occhi, ed è di nuovo luce. esco di casa, di nuovo con le mie prigioni. è discesa. mi trovo un foglietto in tasca, scritto d'arcobaleno su uno straccio di tela.
una camera affittata al mese, il proprietario del negozio dell'angolo che conosco come ci si conosce fra uomini, i ragazzi sulla panchina il pomeriggio, l'inutilità laboriosa delle giornate. penso a quanto di vile, stracco, abbandonato e fittizio ci sia in questa società, in cui tuttavia siamo costretti vivere, e a cui non possiamo in alcun modo sottrarci.
la vera prigione della mente è scovare la vergogna di fuggire verso se stessi, e la condanna è avere per vita quella spazzatura dell'animo, quella tranquillità con cui molti persistono inermi nel circolo vizioso. sembriamo tanti vegetali progrediti.
nulla cambierà veramente?
quando amiamo desideriamo sempre essere migliori di quel che siamo. e quando cerchiamo di essere migliori di quel che siamo, anche tutto quel che ci circonda diventa migliore.
era questa la preghiera.
quel pastore mi diede l'arbitrio. scegliere di continuare in quel sogno, o tornare a vivere. e anche senza parlare, Lui capì. essere giovani... chiodi nella carne cruda, sale sulla piaga nuda. pianti amari. ma c'è amore, e gioia di vivere.
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viste le limitazioni previste dal regolamento, radicali sono stati i tagli sui particolari e sulla descrizione delle ambientazioni. poichè il sogno è un pensiero, ho provato comunque a trasportare in discorso diretto le emozioni provate, perchè nel songo parole non ce n'erano. si potrebbe perciò adattare la conclusione a mò di monologo interiore.
[nota postuma: questo testo ha partecipato ad un concorso per la realizzazione di un breve cortometraggio, con in giuria bernardo bertolucci. si è classificato secondo.]